Appartenere senza essere
Uno «ci è» o «ci fa»? Fino a ieri ci preoccupavamo dei «credenti non praticanti». Cioè di quelli che «credono ma non appartengono»: credono in Dio ma disertano la messa e i riti religiosi. Nel supermarket della religiosità moderna, il «credere senza appartenere» presenta un ampio ventaglio di variabili: da quelli che continuano comunque a ispirarsi ai valori dell’etica cristiana, a quelli che conservano almeno una memoria emotiva della fede («quando ho fatto la prima comunione»), a quelli che si riconoscono in Gesù ma non nella Chiesa e nei preti (normalmente identificati). Ci sono anche quelli che vivono una specie di «appartenenza vicaria» nel senso che non vanno a messa ma danno un assenso culturale alla Chiesa, contribuendo in tal modo a perpetuare il cattolicesimo come anima collettiva. Così, mentre si assottiglia il gregge dei dominicantes (cioè i fedeli della domenica), il credente non praticante «ci è», ma senza «appartenere» («non ci fa»). Da un po’ di tempo, però, sentiamo la serena dell’allarme squillare anche sul versante esattamente opposto: quello dei “praticanti non credenti». Di chi, cioè, brandisce la santa fede, evocando la memoria dei nostri padri, senza però ben conoscerla, anzi a volte più o meno consapevolmente tradendola, e non raramente rendendola funzionale a qualche progetto socio-politico. Si parla di religio civilis, cioè della religione ingaggiata (strumentalizzata) come fattore identitario di un popolo e di un gruppo, come elemento aggregante e di riconoscimento collettivo (grazie ai suoi simboli e ai suoi riti). Fuori dai patri confini ne conosciamo svariate versioni: dagli Stati Uniti (sul dollaro campeggia la scritta «in God we trust», «noi speriamo in Dio»), all’Irlanda del Nord, alla Polonia e i Paesi baltici prima della caduta del comunismo. Oggigiorno, però, il campione di questa nuova alleanza fra il trono e l’altare (a tutto vantaggio del primo) è indubbiamente Vladimir Putin, e pare che la fede cristiana, nell’est Europa, stia conoscendo un nuovo rinascimento. Tornando a noi, vediamo il dibattito infiammarsi sull’affermazione delle nostre radici cristiane, sul rispetto delle tradizioni locali (quasi sempre cattoliche), sul presepe a Natale e il crocifisso nei luoghi pubblici, sul no alla costruzione delle moschee. Battaglie molto serie e spesso condivisibili, intendiamoci – specie quando il confronto è con un laicismo stupido e bolso, o con un erroneo relativismo religioso, ma sorge la domanda di quanto Vangelo ci sia effettivamente dentro, in questo novello cristianesimo militante e d’assalto. Anche perché a volte l’apologia «del» crocifisso (minuscolo) la vediamo abbinata a cose che nulla hanno da spartire con «il» Crocifisso (maiuscolo): per esempio la paura, la diffidenza, persino l’odio per l’altro; la frattura dei legami sociali, la perdita del senso di fraternità umana e di solidarietà verso tutti (e non solo verso i «nostri»). Che c’azzecca con queste cose Colui che ha dato la vita «per voi e per tutti»? Insomma: occhio a chi «appartiene» («ci fa»), ma non «ci è». Non è bene dare a Dio ciò che è di Cesare: ma neanche permettere a Cesare di millantare che ciò che è Dio. Secondo comandamento: Non nominare il nome di Dio invano.
Don Angelo Riva